Qui di seguito propongo una serie di risposte alle -fra le più frequenti- domande che mi vengono rivolte quotidianamente dai miei clienti.
Allo scopo di poter dare un’informazione -sebbene MOLTO sommaria ma indicativa- al lettore, qui propongo un po’ di FAQ (Frequently Asked Questions) stante la possibilità di scrivere sull’apposito format creato per le consulenze on-line (che invece saranno riservate).
Sottolineo che il contenuto delle FAQ è puramente indicativo e sicuramente NON esaustivo.
Nel tentativo di rendere più incisiva la tutela della vittima di un reato espressione di violenza di genere, e nel dichiarato intento di prevenire il consolidarsi nella società di tali fenomeni di violenza il D.L. dd. 14.08.2013 n. 93 – grave; stato convertito in Legge n. 119/2013 in vigore dal 16 ottobre 2013 Ð introducono modifiche alle norme penali che sanzionano l’autore di questi comportamenti ed alle norme processuali che disciplinano il processo che si svolge a carico di questi.
Del complesso intervento del legislatore del d.l. n. 93 la parte che riguarda le norme penali sostanziali è, peraltro, quella meno consistente; infatti dopo lo sforzo effettuato con la L. 23.04.2009 n. 38, con cui viene introdotto nell’ordinamento il reato di atti persecutori nell’intento di far fare un salto di qualità alla tutela penale della vittima della violenza in genere, il legislatore del d.l. n. 93 non ritiene invece necessario introdurre fattispecie penali nuove, considera quelle esistenti come adeguate a reprimere le condotte espressione di violenza di genere diffuse nella società, e concentra la risposta soprattutto nel trattamento processuale dei reati espressione di questo fenomeno sociale, attribuendo maggiore spazio alle esigenze della persona offesa dal reato.
Le modifiche alle norme penali sostanziali introdotte dal testo originario del D.L. n. 93 consistevano infatti soltanto nella introduzione di nuove aggravanti nei reati sensibili dei maltrattamenti in danno di familiari e conviventi (art. 572 c.p.), della violenza sessuale (art. 609Bis c.p.), e degli atti persecutori (art. 612Bis c.p.) lasciando però ferme le rispettive fattispecie base ed il rispettivo trattamento sanzionatorio (che, peraltro, nel caso degli atti persecutori era stato appena elevato pochi giorni prima da un’altra novella che si è temporalmente quasi sovrapposta alla precedente costituita dalla L. 9 agosto 2013 n. 94, di conversione della d.l. Del 01.07.2013 n. 78).
La legge di conversione si è proposta obiettivi più ambiziosi, sostituendo all’aggravante speciale prevista per i soli maltrattamenti un’aggravante comune prevista anche per tutti i reati contro la vita, l’incolumità individuale e la libertà personale, e modificando ulteriori aggravanti della violenza sessuale e la pena massima del reato di minaccia semplice.
È stato, inoltre, mutato due volte, prima nel decreto legge, e poi nella legge di conversione, il regime della procedibilità dello stalking, introducendo prima con il decreto legge deroghe alle regole generai sulla remittibilità della querela mediante un sistema delineato sulla falsariga di quello già esistente per la violenza sessuale, e retrocedendo poi ella legge di conversione ad un sistema misto che consente la remissione della querela ma solo in forme processuali, e che comunque ne vieta la revoca in casi particolari.
La legge di conversione, oltre ad aumentare la pena massima prevista dal reato di minaccia semplice, ha esteso poi anche ai maltrattamenti in danno di familiari e conviventi, violenza sessuale aggravata e stalking l’obbligo di comunicazione al Tribunale dei minorenni ex art. 609 decies c.p., specificando espressamente che la comunicazione serve anche per attivare le procedure ex art. 155 (provvedimento sulla separazione dei genitori) , 330 (decadenza dalla potestà genitoriale), o 333 (allontanamento dalla residenza familiare del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore o allontanamento dello stesso minore), finendo per riconoscere ai provvedimenti del Tribunale per i minorenni la funzione di completare la tutela della persona offesa dei reati in esame.
Così come originariamente la nuova normativa (di cui all’art. 612Bis c.p.) creata poneva dei problemi di ÒrisoluzioneÓa quei casi (fra l’altro più frequenti) in cui il fenomeno dello stalking interessava per lo più la vittima con la quale lo stalker aveva, in precedenza, avuto una relazione affettiva poi terminata.
La nuova norma dell’art. 609-ter c.p. infatti, sanziona anche il fatto di chi è ancora legato alla vittima da una relazione affettiva, mentre quella del secondo comma dell’art. 612Bis c.p. sanzionava soltanto il fatto di chi è stato legato alla vittima da relazione affettiva; la norma dell’art. 609-ter precisa che l’aggravante si applica ad ogni tipo di relazione affettiva, anche se non vi è stata convivenza, l’art. 612Bis c.p. non precisa nulla in punto di convivenza.
La prima differenza di scrittura è venuta meno nel corso della conversione in legge del decreto, in cui con il nuovo art. 1 c. 3 lett. a) è stata nuovamente modificata la norma dell’art. 612Bis c.p. ed è stata estesa l’aggravante non solo al coniuge separato o divorziato, ma anche ad ogni persona che è o è stata legata alla persona offesa da una relazione affettiva.
La seconda differenza di scrittura, invece, è rimasta anche dopo la legge di conversione, e rischia, invece di essere molto importante e di condurre paradossalmente ad una restituzione non voluta nell’ambito di applicazione dell’aggravante del secondo comma dell’art. 612Bis c.p. e di escludere da essa colui che sia stato legato alla vittima da una relazione affettiva senza convivenza, quale potrebbe essere ciò che nel box, con terminologia desueta, abbiamo chiamato il fidanzato.
In presenza di due norme scritte in modo pressoché identico e fondate entrambe sulla esistenza di una relazione affettiva tra vittima ed autore del reato, la circostanza che soltanto in una sola di esse compaia l’inciso che rileva ogni relazione affettiva Òanche senza convivenzaÓ può portare a ritenere, in forza del canone interpretativo dell’ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, che l’aggravante del secondo comma dell’art. 612Bis c.p. scatto soltanto se la pregressa relazione affettiva è stata caratterizzata anche dalla convivenza.
Il mero fidanzato non ha mai iniziato un rapporto di convivenza con la persona offesa, ma che è stato sicuramente legato ad esso da una relazione sentimentale, che nella versione originaria del secondo comma dell’art. 612Bis c.p. rientrava sicuramente nell’ambito di applicazione dell’aggravante, potrebbe, pertanto, rifluire nel reato base del primo comma senza che la norma del c. 2 sia stata toccata sul punto, e solo per effetto dell’introduzione della nuova norma che disciplina fattispecie simile e che induce ad un’interpretazione sistematica della previsione previgente difforme.
La legge 120/2010 ha introdotto dopo il comma 9 dell’art. 186 CdS il comma 9-bis che prevede, per chi sia stato condannato in seguito a guida in stato di ebbrezza, la sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quello del lavoro di pubblica utilità.
Il beneficio in questione non può essere concesso a chi, in seguito alla guida sotto l’influenza di alcool, abbia commesso incidenti.
Il lavoro di pubblica utilità a cui fa riferimento l’art. 9 bis è quello previsto dall’art. 54 d.lgs 274/2000 competenza penale del Giudice di Pace .
Può essere applicato solo con il consenso dell’imputato.
Consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere in via prioritaria nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale presso lo Stato, le Regione, le Provincie, i Comuni o presso Enti ed organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze.
Il Giudice, in seguito a sentenza di condanna (o a decreto penale di condanna) incaricherà l’ufficio locale di esecuzione penale ovvero gli organi di cui all’art. 59 del g.Lgs n. 274/2000 di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità.
Il lavoro di pubblica utilità previsto dall’art. 9 bis Dlgs n. 285/1992, differentemente da quello disposto dal giudice di Pace con l’art. 54 del Dlgs n. 274/2000 , ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata e della conversione della pena pecuniaria ragguagliando euro 250,00 per ogni giorno di pubblica utilità.
Il beneficio che ottiene il condannato ammesso è davvero importante in quanto in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il Giudice fisserà una nuova udienza e dichiarerà ESTINTO il reato, disponendo inoltre la riduzione alla metà della sanzione accessoria della sospensione patente di guida revocando la confisca del veicolo sequestrato.
Contro tale decisione è ammesso il ricorso in cassazione.
Il ricorso non sospende l’esecuzione a meno che il Giudice che ha emesso la decisione disponga diversamente.
In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il Giudice che procede o il giudice dell’esecuzione a richiesta del PM o d’ufficio, con le formalità di cui all’art. 666 del c.p.p. tenuto conto dei motivi, della entità e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena sostitutiva con ripristino di quella sostituita e della sanzione amministrativa della sospensione della patente e della confisca.
Il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di UNA VOLTA.
Il danno non patrimoniale ex artt. 2059 e 2043 c.c. comprende il danno biologico quella lesione dell’integrità psico-fisica, il danno morale, quale sofferenza transeunte risarcibile in conseguenza di un reato nelle ipotesi previste dalla legge ed il danno esistenziale, quale pregiudizio conseguente all’alterazione delle abitudini di vita del soggetto leso capace di incidere sulla vita di relazione di quest’ultimo.
La pronuncia su questo punto resa dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 26972 ha avuto un forte impatto sulla giurisprudenza successiva ed ha concorso a delineare un quadro estremamente complesso.
Il carattere perentorio dell’affermazione secondo cui il danno non patrimoniale non potrebbe essere suddiviso in sotto-categorie è stato stemperato da pronunce secondo cui l’art. 2059 c.c. dev’essere letto come disposizione che detta limiti e condizioni per la risarcibilità di danni non patrimoniali.
Sul piano risarcitorio poi la richiamata pronuncia delle sezioni unite ha inoltre dato un input fondamentale per ciò che concerne la necessità di personalizzare adeguatamente il danno biologico sofferto.
Più nello specifico, per quello che riguarda i danni conseguenti alla circolazione stradale, le tabelle del Ministero per le lesioni cd micropermanenti sotto la soglia del 9% non prevedendo infatti alcun danno conseguente alle sofferenze fisiche e psichiche della vittima.
Per tali motivi il giudice di merito sarà chiamato a procedere ad un’adeguata personalizzazione del danno non patrimoniale da tenere distinta da quella prevista dal Codice delle Assicurazioni.
Nella circolazione stradale il danno non patrimoniale che si verifica con maggior frequenza è costituito dal danno all’integrità psico-fisica accertato mediante ricorso ad accertamento medico-legale.
Il danno psichico a differenza di quello morale deve sfociare in una vera e propria forma di patologia e consistere in un semplice turbamento emotivo.
Dovrà il Giudice, laddove si avvalga delle tabelle, procedere ad un’adeguata valutazione del danno valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso.
Per ciò che concerne dunque la liquidazione concreta del danno morale, debitamente allegato e provato, la sua quantificazione viene operata in proporzione al danno biologico riconosciuto, tenuto conto delle condizioni soggettive della persona danneggiata e della gravità del fatto, del contesto socio-familiare.
Laddove il lavoratore dipendente abbia subito, ed accertato, una grave ed incurabile malattia dovuta all’esposizione a fibre e/o polveri di amianto durante il processo di lavorazione a cui era sottoposto in attività lavorativa, ha diritto ad essere risarcito sia in sede civilistica che in sede penale.
La tutela penale deriva dalla richiesta di rinvio a giudizio del Gip del Tribunale Competente nei confronti di coloro che -seppur preposti all’adozione di misure di prevenzione della malattia professionale da amianto- hanno omesso di adottare tali misure provocando ai lavoratori lesioni gravissime ex art. 590 c.p. o il decesso (imputazione per omicidio colposo ex art. 589 c.p. ).
Le malattie ”proprie” dell’esposizione alla fibra ed alle poveri di amianto sono le placche pleuriche e gli ispessimenti pleurici; l’asbestosi (per lo più polmonare), il carcinoma polmonare e il mesotelioma (nel 90% dei casi si parla di mesotelioma pleurico).
Trattasi di malattie incurabili che, fin dall’entrata in vigore prima dell’art. 21 D.P.R. 303756 e degli artt. 140 lett. f) e 157 D.P.R. 1124/65 e poi dal D.Lvo n. 277/91, avrebbero comunque potuto essere evitate al dipendente laddove i dirigenti e direttori degli stabilimenti preposti alla lavorazione dell’amianto, avessero adottato le più elementari misure di prevenzione finalizzate ad evitare l’inalazione di polveri e fibre d’amianto e/o non disponendo che i locali dove l’attività lavorativa veniva svolta venissero costantemente lavati e bagnati, e/o non prevedendo che il lavoratore esposto, al termine del lavoro, si lavasse e cambiasse la tuta indossata.
Il diritto al risarcimento del danno in sede penale avviene alla prima udienza utile (udienza preliminare entro l’apertura della discussione; in udienza dibattimentale entro le questioni preliminari-atti introduttivi) attraverso la costituzione di parte civile che contiene la relativa pretesa e diritto al risarcimento del danno.
In sede civilistica la malattia professionale può trovare risarcimento nel processo in Tribunale Civile dinnanzi al Giudice del Lavoro.
L’art. 12Bis della L. n. 898 del 1970 statuisce che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di divorzio ha diritto, se non passato a nuove nozze ed in quanto sia titolare di un assegno divorzile ai sensi dell’art. 5, a una percentuale dell’indennità di fine rapporto di lavoro percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.
Il diritto in capo all’ex coniuge sull’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge spetta ove ricorrano tre presupposti:
1) dev’essere intervenuta sentenza passata in giudicato di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio;
2) l’ex coniuge in capo al quale le legge assicura il diritto non dev’essere passato a nuove nozze;
3) lo stesso dev’essere titolare in concreto, e non in via meramente potenziale, dell’assegno divorzile.
Il coniuge divorziato ha diritto all’attribuzione di una percentuale del trattamento di fine rapporto percepito dall’altro coniuge purché dopo la proposizione della domanda di divorzio.
Tale indennità ai sensi dell’art. 12 bis della L. div. deve computarsi calcolando il 40% dell’indennità totale percepita dall’altro coniuge alla fine del rapporto di lavoro, con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro coincide con il rapporto matrimoniale (e non di mera convivenza).
La quota dovuta deve essere stabilita in relazione alla durata legale del matrimonio rientrandovi anche il periodo di separazione precedente al divorzio (Cass 25.06.2003 n. 10075).